IL FILM PIù RADICALE MAI GIRATO SULLA CUCINA

Troppo unico, troppo estremo, troppo radicale per essere un film di moda The Pot-Au-Feu (La Passion de Dodin Bouffant) anche se è un film di cucina e la cucina è uno degli argomenti più di moda. Troppo appassionato, troppo tecnico e troppo ibrido tra contesto occidentale e sensibilità orientale per essere uno dei tanti. In realtà The Pot-Au-Feu è senza dubbio il film più drastico sulla rappresentazione della cucina. Non ci sono compromessi, non ci sono ipocrisie o soluzioni di mezzo, questa storia di un uomo e una donna (Benoît Magimel e Juliette Binoche) degli inizi del Novecento, due gourmet francesi che condividono la cucina della loro magione e si amano, è una storia in cui gli esseri umani ci sono ma sono secondari. Questo è prima di tutto un film di gesti, sul cucinare nel senso dell’atto tecnico, animato da un piacere viscerale nel fare cose difficili.

Inizia con 40 minuti di preparazione di una cena che volano e nel corso del film ci saranno almeno altre tre preparazioni di uguale lunghezza. Nelle pieghe, nelle pause e negli interludi viene mandata avanti la storia, come fosse un hobby. Un uomo e una donna non giovani sono riveriti nel mondo gourmet francese, sono delle autorità e hanno un rapporto sentimentale, tenero e libero (non sono sposati), preparano cene e discutono, forse c’è una giovane erede che può imparare da loro, forse a un certo punto davvero si sposeranno anche se uno dei due non si sente troppo bene. Ci sarà una chiusura della trama ma accade poco altro e tutto tramite dialoghi molto vecchio stampo, scritti con un desiderio di fare poesia che non rende giustizia al resto del film (che la poesia la fa sul serio ma con le immagini). Il meglio di sé questo film impressionante lo dà con le preparazioni che dicono più di tutto quello che possono dire le parole. Feticismo dei pollici bagnati che spingono ripieni, ammirazione della disposizione di carcasse nelle casseruole o del sugo raccolto per bagnare la carne.

Sono ricette cucinate come nei primi del Novecento, facendo tutto da zero, tutto a mano, tutto in pentoloni giganti di rame, fiamme alte alimentate dal fuoco della legna, intestini sventrati, verdure appena colte, vini che bagnano. Tecniche grossolane per preparazioni delicate ed esiti molto precisi. The Pot-Au-Feu riesce ad asciugare la cucina al cinema dall’estetica che più la domina, quella della foga e della frenesia, della tensione per il raggiungimento dell’eccellenza. Questa è cucina domestica a livelli eccelsi condotta con tempi normali in cui conta il gesto, uno sforzo familiare di dedizione in cui emerge fortissima l’espressione manuale della passione di una vita. Non è un mezzo per migliorare sé come in altri film, ma è un mezzo per esprimere sé stessi senza necessariamente farlo a sapere tutti.

A dirigere c’è Tran Anh Hung, cineasta vietnamita fuggito in Francia a 13 anni dopo la caduta di Saigon, Leone d’oro a Venezia con Cyclo nel 1995. Radici asiatiche, formazione europea. La sceneggiatura del film è sua, adattata dal romanzo di Marcel Rouff La Vie et la passion de Dodin-Bouffant gourmet, con la consulenza per le coreografie di cucina di Pierre Gagnaire (tre stelle Michelin nell’omonimo ristorante di Parigi). Cinema fusion, storia e cultura francesi sparate nel trascendentale della mentalità orientale. Dedicarsi a una cosa sola e farla per tutta la vita fino a identificare sé stessi con essa, in un film che per primo si identifica con il gesto che rappresenta. Anche Benoît Magimel e Juliette Binoche qui sono secondari, e che bravi ad averlo capito. Come i grandi attori in ruoli secondari sanno di avere poche scene e poche battute per definire i loro personaggi, quindi serve l’esattezza e la spietata efficacia dei killer. Juliette Binoche in particolare (un’attrice di una versatilità rara) è capace lungo una cena in cui per la prima volta è lei ad essere servita a dire tutto quello che serve con il linguaggio del corpo e la timidezza dei sorrisi.

The Pot-Au-Feu però come detto vive delle scene di preparazione in cui la luce del sole è il conduttore. Come tutto è illuminato, come i controluce esaltano i fumi, come l’ocra del tramonto racconta e scandisce il tempo e racconta la condizione di queste persone è pazzesco. Il tramonto della vita che ha ancora la forza delle passioni, la luce che unisce il terreno del mangiare e del fare con le mani al trascendentale dell’anima. Di contro il sound design è un tappeto continuo di uccelli che cantano, fronde mosse dal vento, rumore di ruscelli, come se i due "protagonisti" stessero cucinando in mezzo alla natura e invece hanno solo la porta della cucina aperta sul giardino. Non c’è realismo (se non nell’atto del cucinare) ma un lavoro pienamente artistico sulla rappresentazione idealizzata dell’elevazione dello spirito e tutto quello che di migliore c’è negli esseri umani tramite una pratica affinata. Cucinare non è cucinare in questo film: è l’espressione di una dedizione.

Tran Anh Hung poteva scegliere qualsiasi altra disciplina per mettere in piedi questa ode del gesto e della sapienza, ha scelto la cucina perché più di altre arti consente al cinema di lavorare sui gesti, sugli oggetti, sulle coreografie e su una serie di dettagli che accumulati dicono tantissimo. Ci vuole una capacità tecnica di fare cinema a livelli altissimi per non stancare e anzi continuare ad attrarre lo sguardo dello spettatore, di verdura in verdura, di pollo bollito in pollo bollito. Ci vuole una precisione di montaggio e ritmo non diversa da quella necessaria a filmare bene un ballo sereno e appassionato. Per questo alla fine il palato è un dettaglio secondario, questo è un film di mani che fanno cose, creano, manipolano e si muovono con una sicurezza e decisione con l’obiettivo di creare qualcosa di significativo per sé. Farlo passare era difficilissimo, The Pot-Au-Feu ci riesce.

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